lunedì 24 aprile 2017

La Sacra di San Michele – Prima Parte







Bentornati!

Se anche voi, come me, avete amato il magnifico romanzo di Umberto Eco, Il nome della Rosa, siete invitati in questo viaggio lungo i secoli per conoscere da vicino la straordinaria storia del luogo che lo ispirò: l’abbazia di San Michele alla Chiusa, più nota come Sacra di San Michele.


Veduta panoramica della Sacra di San Michele - fonte Wikipedia

Siamo in pieno Medioevo, esattamente nel 983 nel cuore della Val di Susa con i suoi valichi, tra  il massiccio dell'Orsiera-Rocciavrè, il Moncenisio, il Rocciamelone, che rendono comodo e agevole il passaggio tra Italia e Francia.

Veduta della Val di Susa dalla terrazza della Sacra di San Michele
(tra il massiccio dell'Orsiera-Rocciavrè, il monte Rocciamelone e le Alpi francesi sullo sfondo) 
Verso la pianura torinese la strada, proveniente dal valico del Moncenisio, si insinua tra due monti, una sorta di chiusa naturale: il Porcariano, che si inerpica di scatto fino a 962 metri, e il Caprasio, alto circa 1500 metri, ma dal declivio più dolce.
Il monte Caprasio dà i natali a un eremita, in seguito canonizzato santo, un certo Giovanni, detto Vincenzo. I valligiani sono, chiaramente, orgogliosi della presenza di un santo locale, soprattutto perché si tratta di un virtuoso il cui voto di povertà lo rende emotivamente vicino al popolo. 

Quell’anno, però, un certo Ugo de Montboissier, ricco aristocratico di origini francesi e dai trascorsi piuttosto opachi, dopo aver ottenuto da Papa Silvestro II il perdono per alcuni peccati, decide di fare ammenda e acquista dal marchese di Torino l’intero monte Porcariano lungo le cui pendici si trova una piccola cappella longobarda dedicata al culto micaelico. Quello di San Michele è un culto che nasce in Terra Santa, si diffonde velocemente in oriente e più tardi conquista il popolo longobardo, il quale riconosce nell’arcangelo, armato di spada a difendere la fede combattendo le forze del Male, Odino dio della guerra, protettore degli eroi. In seguito, il culto dilaga rapidamente, diffuso soprattutto dalla popolarità che gode fra i soldati e conquista l’Europa. Ecco che, dopo aver acquistato il monte, Montboissier affida a un monaco, già abate della diocesi di Tolosa, un certo Adverto di Lezat, il compito di fondare un monastero benedettino che obbedisce all’abbazia di Cluny. Nel giro di quattro anni il nuovo monastero dedicato all’arcangelo prende vita.

Il luogo scelto da Montboissier è indubbiamente straordinario, sia dal punto di vista strategico, che da quello simbolico. La chiesa appena nata, infatti, sovrasta e domina la strada che collega la Francia nella quale confluiscono due importanti correnti di commercio e pellegrinaggio: una conduce a Roma e l’altra, che coincide per un tratto con la prima, collega l’abbazia normanna di Mont Saint Michel con il Santuario di San Michele del Gargano, in provincia di Foggia. San Michele alla Chiusa si colloca, quindi esattamente a metà tra gli altri due santuari occidentali dedicati allo stesso santo. Anzi, la sua posizione è ancora più ingegnosa, poiché allineandosi perfettamente ad essi, a distanza di mille chilometri dal primo e dal secondo, definisce con chiarezza il tracciato che conduce i pellegrini fino a Gerusalemme


Gli abati si rivelano fin dall’inizio esperti comandanti e, come tali, iniziano una concorrenza spietata al culto dell’eremita. Se già l’acquisto dell’intera montagna aveva sancito l’autonomia di questi benedettini nei confronti dell’aristocrazia locale, un nuovo espediente consente loro di garantirsi l’indipendenza anche dal vescovato, mantenendo così un rapporto diretto solo con il papa. Al momento della fondazione i monaci sostengono che la consacrazione di quel luogo sia avvenuta per mano divina. Come fanno? Subito spiegato: sostengono che un fuoco celeste avrebbe avvolto la cima del monte indicando il luogo da scegliere per il nuovo edificio. Per avvalorare questa leggenda modificano e nobilitano il toponimo del monte Porcariano, derivato dalla rilevante frequentazione di maiali su quelle pendici, in Pirchiariano, la cui pretesa radice greca pyr (fuoco) fa diretto riferimento al loro racconto. Inoltre, cercano di inglobare nella narrazione ufficiale della fondazione dell’abbazia lo stesso culto dell’eremita


l'edificio della Sacra con i suoi 5 piani

Per riuscirvi imbastiscono inizialmente una seconda leggenda, secondo la quale il santo Giovanni Vincenzo, meditando sul pendio del monte Caprasio di costruire una nuova chiesa, la sera prepara il materiale occorrente, che deposita fuori dal suo rifugio e la mattina successiva non lo ritrova più perché gli angeli e gli uccelli lo hanno trasportato nottetempo sulla cima del Pirchiariano. Siccome non si ritengono ancora soddisfatti, verso la fine del XII secolo, confezioneranno una terza leggenda, secondo la quale i benedettini, per seguire la volontà di Giovanni Vincenzo, avevano iniziato a trasportarne le spoglie mortali a San Michele a dorso di un mulo, quando, all’altezza di Sant’Ambrogio, località alla base delle fondamenta del monastero, l’animale rifiuta di continuare il cammino. Pertanto, i monaci si vedono costretti ad accogliere la reliquia nella chiesa del paese, anziché trasportarla a quasi mille metri, nell’abbazia.


il monumentale accesso alla Sacra

Tutte queste ingegnose manovre fanno ‘sì che sin dall’insediamento si disegni un equilibrio assai precario tra il culto di San Michele e la semplice religiosità cresciuta tra i villaggi di Chiusa, Sant’Ambrogio, Condove, Caprie e Celle, situati ai piedi di quelle montagne. Questi rapporti profondamente instabili arriveranno all'acme intorno al 1300, ma affronteremo il tema del declino nella prossima puntata.
Per adesso vi anticipo solo che, circa tre decadi dopo la fondazione dell’abbazia pirchiariana, nel 1027, a fondovalle, più precisamente a Susa, nasce un’altra abbazia benedettina, quella di San Giusto. San Giusto, però, viene fondata con il contributo dei marchesi di Torino, quelli da cui i monaci di San Michele rivendicavano la propria autonomia. Presso questa nuova abbazia, che è molto meno nota dell’altra a livello europeo, ma estremamente potente sul piano locale, confluiscono i rampolli delle famiglie valsusine.

ingresso con statua dell'arcangelo


Tornando ad occuparci della situazione dell’abbazia di San Michele tra il X e il XII secolo, direi che è interessante seguire alcuni passaggi che spiegano in che modo essa diventerà, in breve tempo, ombelico del culto micaelico e importantissimo centro europeo di spiritualità ed eccellenza intellettuale. Anzitutto, vale la pena di soffermarci sulle caratteristiche che rendono la Sacra di San Michele unica e inconfondibile nel suo genere e per far questo è necessario individuare gli aspetti che definiscono l’identità di questa sede ecclesiastica. Essi sono principalmente tre. Il primo si riferisce al tratto aristocratico, in quanto l’abbazia, che è in rapporto diretto con quella di Cluny, verrà guidata da una successione regolare e ordinata di abati colti, oltreché capaci, provenienti da famiglie aristocratiche. Il secondo, è consequenziale al primo e riguarda il tratto intellettuale, in quanto il monastero nasce e proseguirà il suo percorso con la vocazione allo studio e alla ricerca. Il terzo è il tratto internazionale, non solo in quanto fin dalla fondazione il reclutamento degli abati e dei monaci avverrà sempre all’interno dei territori di Provenza, Linguadoca, Aquitania e Catalogna, ma anche perché il ciborio manterrà costantemente forti legami con le realtà monastiche posizionate in quei territori. La sinergia di questi tre aspetti determinerà la qualità dei rapporti che S. Michele alla Chiusa, sin dalla nascita, andrà via via intessendo con i vari centri di potere.

lato est con spumone di montagna
È un fatto certo che con l’anno 1000 la fama del monastero raggiunge l’apice, e ciò grazie soprattutto alla protezione della Santa Sede, che in quel periodo sta realizzando la Riforma ecclesiastica. Inoltre, in questo momento storico il ciborio si dota di una magnifica biblioteca, due ampi locali colmi di preziosissimi volumi, e di uno scriptorium, all’interno del quale vengono tradotti numerosi codici. Come già accennato, la maggior parte dei suoi monaci è composta da intellettuali e questi eruditi si muovono per l’Europa raggiungendo altre abbazie affini allo scopo di tenere dibattiti teologici e attirare colleghi alla Sacra. Ma lo scambio intellettuale di S. Michele alla Chiusa, che avviene sia in uscita, che in entrata, si gioca anche ad altri livelli e, infatti, qui, oltre ai comuni pellegrini vengono ospitati grandi aristocratici, re, principi e papi. Del resto, la sosta nell’aristocratico monastero è molto ambita: il cibo è di altissima qualità, vi sono stalle attrezzate per ospitare e rifocillare i cavalli, servizi all’avanguardia e l’infermeria. Insomma, l’accoglienza della Sacra viene apprezzata così tanto che un po’ tutti quelli che transitano lì lasciano per gratitudine terre della loro origine di provenienza, spesso anche comprensive di altre chiese. È così che il patrimonio dell’abbazia si espande in tutta Europa e diventa ricchissimo.

il percorso di uscita

Il papato, che già con Silvestro II e con Leone IX si era dimostrato di grande sostegno a questi benedettini, continua a offrir loro grandi privilegi. Il 23 aprile del 1114, Pasquale II accoglie il monastero sotto la tutela apostolica e concede all’abate Ermenegardo il diritto di indossare i sandali, la dalmatica e la mitra, segni liturgici della sua dignità ecclesiastica. Un decennio più tardi Callisto II, eletto papa nel 1119, dopo aver trascorso un anno in Francia per trovare un accordo con l’imperatore Enrico VI, senza successo, si reca a Cluny e sulla strada di ritorno a Roma si ferma per alcuni giorni presso il villaggio di Sant’Ambrogio, già divenuto possedimento degli abati clusini, dove viene accolto dallo stesso Ermenegardo. Qualche anno più tardi, Callisto II riconferma, con una nuova bolla, tutti i privilegi e la tutela apostolica alla Sacra. Il prestigio e l’influenza di questo monastero cresce sempre più e, addirittura, dieci anni dopo, nel 1133, il nuovo papa, Innocenzo II, emana direttamente dal monte Pirchiariano una bolla con la quale impone la pacificazione e la fine di una lite, durata anni, tra laici ed ecclesiastici.


Ecco che, nella fase di raggiungimento del massimo successo per San Michele della Chiusa, in cui il colloquio con il maggior monachesimo europeo si dimostra sempre più fervido e il flusso di pellegrinaggio è aumentato in modo esponenziale, vien dato avvio ai lavori di ampliamento che porteranno alla realizzazione di una struttura monumentale eretta direttamente sulla vetta del Pirchiariano


Finisce qui la prima parte del nostro viaggio, che se vorrete riprenderà la prossima settimana a partire dalla descrizione dello Scalone dei Morti e del Portale dello Zodiaco.

Avete mai visitato l’abbazia di San Michele alla Chiusa?
Vi era già nota la sua storia?



Nell'augurarvi il meglio vi do appuntamento alla prossima settimana! :)




Bibliografia:
La Sacra di San Michele, Giuseppe Sergi e Claudio Bertolotto – edizione del Graffio di Borgone
Nuove ricerche sul Portale dello Zodiaco alla Sacra di San Michele, di Carlo Tosco – all’interno de La trama nascosta della cattedrale di Piacenza, a cura di Tiziano Fermi

Iconografia:

Veduta della Sacra di San Michele immersa nella val di Susa: Wikipedia, autore Andrea Bonelli 
Veduta di Mont Saint Michel: Wikipedia, autore Luca Deboli 
Facciata del Santuario di S. Michele del Gargano: Wikipedia, autore Nikater  
Disegno del primo Tempio di Gerusalemme: Wikipedia, pubblico dominio 
Cartina di Europa e Paesi del Mediterraneo: http://www.educa.madrid.org/web 

Tutte le successive immagini sono frutto dei miei scatti fotografici:

Veduta della Sacra dal monte antistante
Monumentale accesso al monastero
Corpo centrale dell’abbazia con statua di San Michele Arcangelo dello scultore Paul Moroder
Corpo lato est dell’abbazia con spumone di montagna
Veduta della Val di Susa dalla terrazza della Sacra (tra il massiccio dell'Orsiera-Rocciavrè, il monte Rocciamelone e le Alpi francesi sullo sfondo)

sabato 15 aprile 2017

Post di auguri






Cari amici, immaginando che molti di voi siano in viaggio, chi per raggiungere amici e parenti, chi per concedersi una breve vacanza e che altri stiano approfittando di questi giorni di riposo per portare a termine piccoli o grandi lavori, vi comunico che anche questo blog si prenderà una pausa.

Salterà, dunque, l’appuntamento della prossima settimana e ci ritroveremo lunedì 24 aprile con un nuovo post.

Nel frattempo, invio a tutti voi un affettuoso augurio di trascorrere queste giornate con tanta gioia: fate ciò che più gradite, divertitevi e ballate, Buona Pasqua! :)
  
There’s a starman waiting in the sky
He’d like to come and meet us
But he thinks he’d blow our minds
There’s a starman waiting in the sky
He’told us not to blow it
Cause he knows its all wortwhile
He told me
Let the children lose it
Let the children use it
Let all the children boogie

David Bowie, Starman, 1972




Immagine: Vincent Van Gogh, Mandorlo in fiore, 1890, Van Gogh Museum, Amsterdam


lunedì 10 aprile 2017

Considerazioni semiserie sulle macchinine e l'arte della guerra









Osservando delle biglie di vetro, di quelle con gli inserti ondulati e colorati all’interno, su una fotografia scivolata per caso tra le mani, il mio cuore si è tuffato senza remore nei ricordi d’infanzia. Mi sono rivista a sei anni, mentre con un rapido movimento dell’indice opposto al pollice facevo scivolare, più veloci che mai, quelle piccole sfere sul marciapiede assolato dinanzi al palazzo nel quale vivevo.

Le biglie della mia infanzia
Una sciocca reminiscenza, probabilmente. Ma forse no.

Un attimo dopo, la memoria viene invasa dall’immagine di una gara con le macchinine, che si svolge sempre sullo stesso nastro d'asfalto. Protagonisti di quel gioco è un gruppetto di bambini e tra loro ci sono anch'io. Alcuni di voi si chiederanno come mai non giocassi con le bambole, ma i miei passatempi erano biglie, macchinine, salti ai fossati, guardie e ladri, corse pazze in bicicletta e sugli schettini,... Frequentavo la compagnia di mio fratello, o meglio, facevo di tutto per farmi accettare da quella comitiva, a mio giudizio molto più interessante e spassosa rispetto le noiose compagnie composte da bambine della mia età che abitavano nel quartiere. E poi quei ragazzi erano “grandi”, avevano almeno tre anni più di me, erano anche creativi e molto stimolanti. Ad ogni modo, la sfida di cui sto parlando mi lasciò molto perplessa all’epoca, perché non venne riconosciuta la vittoria a chi aveva vinto. Provate a indovinare di chi sto parlando!

Sì, sono io :-)
Se vi va di continuare a seguirmi, vi racconto come si svolsero i fatti.

Cinque concorrenti (Fabio, Enrico, Carlo, Roberto e io), una pista tortuosa e regole chiare: estromissione dal gioco allo sconfinamento del tracciato, vittoria assegnata al primo che avrebbe tagliato il traguardo. 

Già pochi minuti dopo l’inizio, Fabio e io ci troviamo in netto vantaggio rispetto agli altri, i nostri sorpassi e il modo in cui abbiamo tagliato le curve sono risultati molto più efficaci. Lui mi precede, di poco, ma mi precede. A circa mezzo metro dalla fine, riesco a passare in testa a tutti, distanziando di  qualche centimetro la macchinina del mio diretto avversario. Abilità, forse, ma anche un gran colpo di fortuna: sono emozionata. Poi, un attimo prima dello scatto finale succede qualcosa. Mi ricordo che il mio modellino è allungabile, si tratta di un Maggiolino Tutto Matto, che riproduce fedelmente la particolarità dell’auto protagonista del noto film Disney. Così, senza riflettere, spingo il dito sulla levetta, osservo il giocattolo estendersi leggermente e con soddisfazione effettuo il lancio finale tagliando il traguardo. A causa di quel gesto viene annullata la gara. Eppure il meccanismo del mio mezzo era ben noto a tutti i compagni, fin dall'inizio.

“Hai barato” disse Fabio “quindi, non hai vinto un bel niente!”
“Giusto” aggiunse Enrico, “è facile vincere con una macchinina truccata”
“Sei fuori” gridò indignato, Carlo.
“Potevi risparmiartelo” notò mio fratello, Roberto, con un certo sussiego “ti sei fregata con le tue stesse mani”

Probabilmente avrei vinto anche senza ricorrere a quell’espediente. Oppure no, ma perché l’avrò usato? Già, perché?

Grazie anche a quell’episodio, in seguito mi sono posta un sacco di domande, anche molto imbarazzanti, tipo: “è vero che il contrario di una verità è un’altra verità, oppure no?” :-D
Insomma, con l’andare degli anni ho cercato un po’ ovunque risposte ai miei "bizzarri" quesiti, ma non è sempre stato facile trovarne. In questa assidua ricerca, i miei più grandi alleati sono sempre stati i libri. Numerosissimi e di ogni genere, uno più avvincente dell’altro, ma ciascuno di essi andava a comporre un’interminabile collana di perle, nella quale ogni piccolo globo riconduceva a una possibile risposta spalancandosi, poi, ad ulteriori interrogativi.
Ecco, tra i tanti volumi cui mi sono accostata vorrei citarne uno in particolare, che non si è mai limitato a suggerire qualche spunto di riflessione, non si è mai fermato a voler sollevare qualche dubbio. Bensì ne ha evocati a bizzeffe e, nella stessa misura, ha fornito risposte. E continua a farlo. 


Parlo dei I Ching, Il Libro dei Mutamenti, una monografia che affonda le sue radici nel pensiero taoista. Tra i critici non è stato trovato un accordo sulla sua datazione – alcuni ritengono intorno al XII sec. a. C., altri sostengono intorno al VI sec. a. C. – e va anche detto che alcune parti vennero aggiunte in tempi successivi. Il testo, composto da due parti, nelle quali vengono sistemati 64 esagrammi (64 simboli composti da sei linee, uno diverso dall'altro e ciascuno dei quali rimanda a una spiegazione), talvolta è stato liquidato dagli studiosi occidentali come una raccolta di “formule magiche”, in altri casi come una collezione di sentenze troppo astruse per essere intellegibili, in altri ancora come qualcosa di poco valore. Nel 1948, Richard Wilhelm, uno dei più importanti sinologi di lingua tedesca, si decide a tradurlo e chiede a Carl Gustav Jung, psichiatra, psicanalista e antropologo svizzero, di scriverne la prefazione. Jung, affascinato dall’insistenza con cui L’I Ching si sofferma sull’importanza di conoscere se stessi, partendo dalla legge del perpetuo mutamento di tutte le cose, considera il libro una “sola, lunga esortazione a esaminare con cura il proprio carattere, il proprio comportamento e le proprie motivazioni” e aggiunge che “Non si possono mettere da parte alla leggera uomini della statura di Confucio e Lao-tse quando si sia in grado di apprezzare la qualità del pensiero che essi rappresentano; e meno ancora si può sorvolare sul fatto che l'I Ching fu la loro principale fonte d'ispirazione” Così facendo pone le fondamenta sulle basi della teoria della Sincronicità.

Vi dico subito che sarebbe impossibile, almeno per me, tentare di addentrarmi nella disamina di questo capolavoro – oltretutto, in un unico post. Figuriamoci! – e, quindi, seguendo la falsariga della mia perlustrazione mnestica, arrivo al dunque.

Molti anni più tardi, continuando la mia stravagante ricerca, sono incappata in un altro trattato orientale, questa volta di taglio squisitamente militare. Mi riferisco a un libro del III sec. a.C., a sua volta ispirato a L’I Ching e attribuito a un certo Sun Tsu: L’Arte della guerra
La grandezza di questo testo, secondo me, non sta nel proporre soluzioni a tutti i tipi di situazioni, ma semmai nel fotografare l’ultima proposta strategica a un conflitto, mettendo in evidenza tutte le possibili condizioni che si potrebbero presentare, l’una dopo l’altra, fino al raggiungimento della vittoria. In questo modo il libro esamina tutte le variabili che si vengono a presentare in condizione di scontro, di guerra. Ma ancora più affascinante è scoprire che il concetto di conflitto, oltre ad includere le sfide e le aggressioni, si allarga a tutto ciò che ci capita all’improvviso e ci costringe a rimetterci in gioco. Quindi la guerra può essere intesa anche come interna a noi stessi.

Estendendo ulteriormente quest’astrazione L'Arte della Guerra spiega che spesso siamo noi stessi la causa dello scontro e il nostro modo di vedere il mondo come “ingiusto” è sintomo di una mancata presa di coscienza dello stato delle cose.   

Vi assicuro che la sua lettura è seducente, tuttavia, anche in questo caso – perdonatemi, se vi riesce – mi limiterò a lambirne i contenuti e a sfruttarne alcuni passaggi per colorare a tinte allegre le mie divagazioni. J

Ecco qui gli stralci cui accennavo:

La condotta della guerra si fonda sempre sull’inganno
In ogni conflitto le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria
Combatti con metodi ortodossi, vinci con metodi straordinari

Ricollegandomi all’escamotage della macchina allungata, che usai durante  la fatidica disputa, queste sembrano le risposte: era sorprendente, divertente, straordinario. Ma soprattuttoera vincente, benché i miei buffi compagni di gioco non fossero riusciti a riconoscerlo! ;-) 

Bene, cari amici, il post semiserio di oggi si chiude qui. Prima di salutarvi vi invito a rispondere alla domande che seguono e vi do appuntamento tra un paio di giorni sul blog di Cristina M. Cavaliere, Il Manoscritto del Cavaliere, sul quale sarò ospite con un nuovo post.


Calunnia, Sandro Botticelli, 1496, Uffizi, Firenze- fonteI Maestri del Colore - 8 -Botticelli, Fabbri, 1963


Vi è mai capitato di essere vittima di un pregiudizio, anche minimo?

Quali “mancanze” vi sono state attribuite? :-)


Come avete reagito? E che effetti ha prodotto la vostra reazione?


Un caro saluto e arrivederci alla prossima!


BIBLIOGRAFIA:
L’Arte della Guerra, Sun Tsu, Enaudi
I Ching, Il Libro dei Mutamenti, a cura di Richard Wilhelm, prefazione di C.G. Jung, Adelphi

ICONOGRAFIA:
Statua di Sun Tzu in Yurihama, Tottori, Giappone – fonte: Wikipedia
Calunnia, Sandro Botticelli, 1496, Uffizi, Firenze – fonte:  I Maestri del Colore – 8 – Botticelli, Fabbri, 1963

Anche le altre immagini (ad esclusione del mio foto-ritratto) sono state liberamente tratte dal web 


domenica 2 aprile 2017

Contaminazioni e ispirazioni nel mondo dell’arte







Oggi vi propongo una sequenza di dipinti famosi, attribuiti a pittori altrettanto celebri, i cui soggetti, o semplicemente i cui temi, si ripetono in un gioco di curiose corrispondenze.
Ebbene, nel mondo dell’arte questo fenomeno non rappresenta certo una novità, anzi, ma sarà (spero) piacevole scorrere le immagini cercando di comprendere quanto sia importante la contaminazione, soprattutto se inserita in un’ottica evolutiva.

Adesso, non ci resta che decidere da dove partire J… siccome tra qualche ora mi recherò in visita a Palazzo Reale per seguire la mostra Manet e la Parigi moderna, daremo inizio al nostro viaggio attraverso le contaminazioni seguendo un percorso che si snoda intorno a questo artista.

Il dipinto che andremo ad analizzare confrontandolo con i successivi, dunque, sarà Olympia, di Édouard Manet, esposto al Salon des Refusés nel 1865.  
Un piccolo inciso prima di iniziare: in questo articolo ho disseminato cifre un po’ ovunque, ma, d'altra parte, per comprendere la storia dell’arte è di fondamentale importanza tener presente le date di nascita degli artisti. Non odiatemi.  J


Édouard Manet, Olympia, 1863, Musée d’Orsay, Paris
Anzitutto, proviamo a inquadrare questo pittore, senza entrare nei minimi dettagli, focalizzandoci su alcuni aspetti chiave.

Manet nasce a Parigi nel 1832, dunque appartiene alla borghesia dell’Ottocento francese, classe sociale agiata del Secondo impero. Frequenta un collegio di qualità, ma a sedici anni abbandona gli studi classici per intraprendere una carriera militare in marina, divisione dalla quale verrà respinto agli esami di ammissione. Il padre, un alto funzionario del ministero della Giustizia, che inizialmente intendeva riservare al figlio un destino di uomo di legge, accetterà, suo malgrado, di vederlo partire intorno ai vent’anni per un viaggio in Italia durante il quale si formerà come autodidatta che procederà al di fuori degli schemi accademici. Manet tornerà da questo viaggio arricchito di una libertà di pensiero che gli consentirà di fare la differenza rispetto a molti suoi contemporanei

Nel 1866, Émile Zola (1840 – 1902) scriverà un articolo, su La Revue du XXe siècle, in favore dell’artista, che per ringraziarlo gli proporrà di posare per un ritratto. Tra Manet e il critico d’arte e letteratura, romanziere, nonché una delle penne più audaci di quel tempo (Zola diventò la voce della coscienza nell’affare Dreyfus del 1898, schierandosi contro il tribunale militare che aveva erroneamente condannato il giovane ufficiale ebreo alsaziano), nascerà una profonda e solida amicizia, carica di stima, ammirazione reciproca, condivisione di passioni e ideali. Come Zola, Manet sarà sempre propenso all’innovazione e fortemente teso a mettere in discussione i paradigmi della società nella quale vive, senza ritrosie.


Il Ritratto di Zola, del resto, è una sorta di manifesto del credo di Manet (e del suo amico): Zola posa seduto al tavolo di lavoro con in mano un libro e sulla parete che fa da sfondo sono riconoscibili una riproduzione della Olympia, una stampa tratta da Festa di Bacco di Velasquez, a testimonianza della passione comune per la pittura spagnola, un’ulteriore stampa, che riproduce un'opera di Utagawa Kuniaki. Sul lato opposto si vede un paravento di seta, decorato con rami fioriti, a indicare, ancora una volta, quanto l’arte giapponese abbia rivoluzionato il concetto di prospettiva e di utilizzo del colore in questo artista (successivamente anche gli altri Impressionisti si lasceranno catturare dalle stampe giapponesi). 

Édouard Manet, Ritratto di Zola, 1868, Musée du Louvre, Paris
Quindi, per entrare nel cuore di questo post è necessario partire dalla reazione che il dipinto in analisi suscitò quando venne esposto. 

Manet proverà a proporre l'Olympia al Salon des Refusés una prima volta nel 1863, ma l'opera verrà rifiutata, mentre quando (finalmente) la presenterà, nel 1865, la critica griderà allo scandalo. Pensate che, addirittura, vi furono tentativi da parte del pubblico di sfregiare la tela.

Come si spiega una simile reazione?

Non certo perché la protagonista è nuda. Di nudi se ne erano visti tantissimi, ormai da secoli. E nemmeno perché la sua postura, adagiata su un materasso, sia inedita. Anzi. 

Ebbene, a questo proposito, prima di giungere alle conclusioni, esploriamo alcune corrispondenze.   

Dovete sapere che, sempre presso il Salon des Refusés, esattamente due anni prima, cioè nel 1863, Alexandre Cabanel (1823 – 1889) aveva esposto, con grande successo, la Nascita di Venere, che come potete notare è altrettanto svestita e ritratta in una posa decisamente languida. Tanto per esser chiari sul suo trionfo, vi dirò che la tela verrà acquistata da Napoleone III per la sua collezione personale.

Alexandre Cabanel, Nascita di Venere, 1863, Metropolitan Museum of Art, New York

Eh, sì. Ma per intenderci, vale sicuramente la pena di comprendere chi sia questo autore. Cabanel è un accademico, un pittore pluripremiato, alquanto retorico, che ricorre alla mitologia classica per affrontare il nudo senza destare scandalo. Cabanel non va mai contro i gusti del pubblico: si adatta, anche vergognosamente. I suoi punti di riferimento sono esponenti della pittura neoclassica, come Jean-Auguste-Dominique Ingres e artisti del Rinascimento, come Tiziano. Cabanel non è di sicuro uno che vuole rischiare.

Ecco, prendiamo ad esempio la Venere di Urbino, di Tiziano (1490 – 1576). 

Tiziano Vecellio, detto Tiziano, Venere di Urbino, 1538, Galleria degli Uffizi, Firenze

Senza dubbio, Manet, nel momento in cui crea Olympia, avrà in mente questo dipinto, che aveva visto durante il suo viaggio in Italia: la posa delle due donne presenta moltissime analogie e il tenero cagnolino (che nel simbolismo mitologico voluto da Tiziano rappresenta la fedeltà) verrà sostituito dal gatto che tiene la coda alzata. Cabanel, invece, si limita a emularla.

Vorrei farvi notare, però, che anche Tiziano Vecellio aveva omaggiato il suo maestro, Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione (1478 – 1510). Tuttavia, Tiziano prendendo ispirazione dalla Venere dormiente di Giorgione, per la sua dea, la renderà molto più ambigua: la sua protagonista non verrà più ritratta a occhi chiusi, ma con lo sguardo, un po’ trasognato e un po’ seduttivo, rivolto verso il visitatore. Ah, Tiziano, che marpione!

Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione, Venere dormiente, 1510, GemäldegalerieAlte Meister, Dresden

E ora apprestiamoci a osservare La grande odalisca di Ingres, dipinta nel 1814.   
Jean-Auguste-Dominique Ingres, La grande odalisca, 1814, Musèe de Louve, Paris

Come indicato dal titolo, il dipinto raffigura un’odalisca collocata all’interno di un harem (Ingres dimostra così uno spiccato interesse per i soggetti esotici, tanto apprezzati dai pittori affini al romanticismo), distesa su un materasso semi disfatto, che ricorda molto da vicino quello sul quale si adagia la Venere di Tiziano (e anche quello sul quale Manet ritrae la sua Olympia). L’odalisca è ritratta di schiena ed è completamente nuda: questo elemento suggerisce che l’artista prese ispirazione da la Venere dello specchio, o Venere di Rokeby di Diego Velàsquez (1599 – 1660) , del 1648. L'artifizio dello specchio ci mostra quanto il pittore spagnolo fosse, a modo suo, molto audace. 

Diego Velàsquez, Venere di Rokeby, 1648, National Gallery, London

Tornando a osservare con attenzione il dipinto di Ingres, non possiamo far a meno di constatare che, il volto dell’Odalisca, il suo copricapo e il gioiello che indossa tra i capelli, riconducono inevitabilmente a Raffaello Sanzio (1483 – 1520) e alla sua Fornarina: ecco un’altra importante citazione ;-)       

Raffaello Sanzio, La Fornarina, 1519 circa, particolare, Galleria Nazionale d’Arte antica, Roma

Ci resta ancora un’ultima tappa prima di completare la nostra carrellata per arrivare a svelare il motivo per cui Manet, con la sua Olympia, arrivò a scuotere così tanto la sensibilità dei suoi contemporanei.

Tra gli artisti più apprezzati dall’autore di Olympia va senz’altro annoverato Francisco Goya (1746 – 1828), che Manet ebbe occasione di ammirare più volte, nella collezione di Luigi Filippo, al Louvre, oltre che durante i frequenti viaggi in Europa, e al quale si ispirò più e più volte. 

Francisco Goya, Maya desnuda, 1800 circa, Prado Museum, Madrid

La Maya desnuda di Goya è un’opera del 1800, circa, nella quale non viene raffigurata una dea, o un’icona di un mondo lontano ed esotico, bensì una giovane donna completamente svestita che mette in mostra con spregiudicatezza la propria sensualità. L’artista spagnolo non ricorre a nessun artifizio pittorico per coprirne i seni e il pube e, addirittura, la ritrae con uno sguardo provocante, irriguardoso, e diretto verso lo spettatore con aria di sfida. Per questo dipinto, Goya verrà chiamato a rispondere, nel 1815, davanti al Tribunale dell’Inquisizione, e in seguito si ritirerà (costretto) definitivamente dalle scene.

Adesso, che siamo arrivati alla resa dei conti, concediamoci di guardare di nuovo l’Olympia.

Édouard Manet, Olympia, 1863, Musée d’Orsay, Paris

Come potete notare, Manet applica i colori in modo piatto e per creare i contrasti cromatici accosta tonalità scure ad altre chiarissime, utilizzando una tecnica riconducibile alla pittura spagnola. La profondità dello spazio, ottenuta con i parametri classici, qui è del tutto assente, non esistono chiaroscuri, non esiste lo sfumato e questo deriva dai lunghi studi dedicati alle stampe giapponesi. Già questa innovativa tecnica pittorica spiazzerà il pubblico, ma la sua grande provocazione non si esaurirà qui. 

Il punto è che Olympia è completamente priva di retorica: la giovane in posa (nella quale è riconoscibile Victorine Meurent, amica e modella feticcio di Manet, che posò per ben 11 tele, dal 1862 al 1875, tra cui Colazione sull'erba, Mademoiselle V., La cantante di strada, …) possiede uno dei più diffusi pseudonimi che prendevano le giovani prostitute della Parigi di quegli anni: Olympia, giustappunto.

Il suo sguardo è sfrontato, la sua posa impudente.

Manet, Olympia, particolare del volto: Victorine Meurent, posando per Olympia, rivolge allo spettatore uno sguardo di sfida. Questa sfida alle convenzioni borghesi portò Théophile Gautier, poeta e critico, a scrivere: "Potremmo scusare la laidezza se fosse vera, studiata, rialzata da qualche splendido effetto di colore... qui non vi è altro che la volontà di voler attirare ad ogni costo lo sguardo"


Il braccialetto che porta, così come il cinturino stretto intorno al collo e le ciabattine che indossa la collocano esattamente nell’epoca contemporanea del pittore.


Manet, Olympia, particolare dei gioielli


Manet, Olympia, particolare delle ciabattine


Il gatto, nero come lo sfondo e nero come il volto della domestica, ha la coda alzata come se fosse spaventato dallo spettatore.

Manet, Olympia, particolare del gatto. Anche l'animale diventa testimone della violenza dello sguardo dello spettatore


Olympia induce turbamento nella coscienza e nel sentimento morale di chi la guarda perché il suo è uno sguardo duro, spietato, intriso di realismo.

L'espressione del volto della protagonista, il suo sguardo quasi assente, demotivato, frustrato, è quello di una donna sfinita dal mestiere di prostituta. Quella espressione parla direttamente alla borghesia che le sta di fronte, si rivolge a tutti i cosiddetti benpensanti, li sfida a guardarsi allo specchio, a riconoscersi nella propria ipocrisia, quindi li critica.   

Forse sarà inutile aggiungere - ma forse no - che, con Olympia e successivamente con Colazione sull'erba, presentato nello stesso anno, Manet si votò alla celebrità postuma.


Ecco, cari amici, siamo giunti alla fine di questo post. Prima di congedarmi per salutarvi e darvi appuntamento alla prossima settimana, vi pongo alcune domande:

Anzitutto, vi è piaciuto ciò che avete letto?

Cosa ne pensate?

Vi vengono in mente altre opere ispiratrici?...

Vi piacerebbe trovare altri articoli orientati a intercettare le innumerevoli connessioni e contaminazioni nel mondo dell'arte?

Un caro saluto e alla prossima!


BIBLIOGRAFIA:

Maurice Raynal, Jean Leymarie, Histoire de la peinture moderne - De Baudlaire a Bonnard - Albert Skira

Philippe Daverio, I capolavori dell'arte, Manet - Corriere della Sera editore

Philippe Daverio, I capolavori dell'arte, Goya - Corriere della Sera editore

Philippe Daverio, I capolavori dell'arte, Ingres- Corriere della Sera editore

Rinascimento, Skira editore

Bernhard Fabian, Cultural Treasures of the World - Klaus Dieter Lehmann ed.

G.C. Argan, Storia dell'arte italiana - Sansoni



ICONOGRAFIA:

Édouard Manet, Olympia, 1863, Musée d’Orsay, Paris, via Wikimedia commons – public domain

Édouard Manet, Ritratto di Zola, 1868, Musée du Louvre, Paris, via Wikimedia commons – public domain

Alexandre Cabanel, Nascita di Venere, 1863, Metropolitan Museum of Art, New York, via Wikimedia commons – public domain

Tiziano Vecellio, detto Tiziano, Venere di Urbino, 1538, Galleria degli Uffizi, Firenze, via Wikimedia commons – public domain

Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione, Venere dormiente, 1510, GemäldegalerieAlte Meister, Dresden, via Wikimedia commons – public domain

 Jean-Auguste-Dominique Ingres, La grande odalisca, 1814, Musèe de Louve, Paris, via Wikimedia commons – public domain

Diego Velàsquez, Venere di Rokeby, 1648, National Gallery, London, via Wikimedia commons – public domain

Raffaello Sanzio, La Fornarina, 1519 circa, particolare, Galleria Nazionale d’Arte antica, Roma, via Wikimedia commons – public domain

Francisco Goya, Maya desnuda, 1800 circa, Prado Museum, Madrid, via Wikimedia commons – public domain